Normativa

Pubblico concorso: il requisito della cittadinanza

L’accesso al pubblico concorso da parte di coloro che non abbiano cittadinanza italiana è un tema rilevante e di primaria importanza in considerazione dei numerosi concorsi pubblici che sono stati banditi dalle Pubbliche Amministrazioni in questi ultimi anni.

A livello di diritto europeo, il tema del pubblico concorso[1] è disciplinato dall’art. 45, c. 4 TFUE in forza del quale, nel settore del pubblico impiego, viene introdotta una deroga al principio della libera circolazione dei lavoratori. Invero, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, evitando di circoscrivere eccessivamente il diritto alla libera circolazione dei lavoratori e promuovendo una nozione condivisa di pubblica amministrazione tra gli Stati membri, ha riconosciuto la necessità di riservare il posto di lavoro pubblico a favore dei cittadini dello Stato solamente quando, nell’esercizio delle proprie mansioni e funzioni, il pubblico dipendente eserciti poteri pubblici relativi allo Stato o ad altre collettività pubbliche in maniera continuativa e prevalente[2]. Secondo tale orientamento, l’esercizio di un solo potere amministrativo non sarebbe un elemento sufficiente per riservare il posto di lavoro esclusivamente ai propri cittadini.

Nel nostro ordinamento, il Testo Unico del Pubblico Impiego si pone in continuità con quanto statuito dalla disciplina dell'Unione Europea, riconoscendo, all’art. 38, ai cittadini degli Stati membri dell'Unione Europea e ai loro familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente, ai cittadini di Paesi terzi che siano titolari del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo o che siano titolari dello status di rifugiato ovvero dello status di protezione sussidiaria la possibilità di accedere ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche che non implichino esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengano alla tutela dell'interesse nazionale[3].

Nella definizione dei posti di lavoro pubblico per accedere ai quali è necessaria la cittadinanza italiana, il Testo Unico sul Pubblico Impiego rinvia ad un Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri[4], il quale, come rilevato dalla giurisprudenza di merito[5], non indica tipologie di posti o attività per le quali la cittadinanza italiana costituisce un elemento essenziale, ma si limita ad individuare intere categorie di dipendenti pubblici (ad esempio, magistrati e avvocati di stato) o interi comparti (per esempio, i ruoli presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, presso i Ministeri della Giustizia, degli Affari Esteri, degli Interni, della Difesa e delle Finanze) per accedere ai quali il requisito della cittadinanza costituisce condizione essenziale[6].

Il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri non è conforme ai criteri delineati dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, in quanto il nostro ordinamento, considerando complessivamente plessi organizzativi ed intere categorie di dipendenti, rischia di includere tra i posti di lavoro per i quali è necessario il possesso della cittadinanza italiana anche posizioni lavorative che non implicano l’esercizio di pubblici poteri[7].

A ciò si aggiunga, come recentemente rilevato dalla giurisprudenza[8], che il rinvio effettuato dal Testo Unico a posti e funzioni, per l’esercizio delle quali il possesso della cittadinanza italiana è condizione indispensabile, esclude che vi possano essere interi comparti amministrativi, ai quali, per definizione, sia precluso l’accesso a chi sia privo della cittadinanza italiana. Secondo questa lettura, il decreto, prima ancora che contrario alla normativa europea, sarebbe in contrasto con l’art. 38 del d. lgs. 150 del 2011.

 

[1] In tema di cittadinanza e pubblico concorso, si rinvia a B. GAGLIARDI, La libera circolazione dei cittadini europei e il pubblico concorso, Napoli, 2012, 59 e ss., V. MARCENO’, Lo straniero e il pubblico impiego tra “privilegio’’ del cittadino e dignità del lavoro in Immigrazione e diritti fondamentali, F. ASTONE, R. CAVALLO PERIN. A. ROMEO, M. SAVINO (a cura di), Torino, 2019, 234 e ss. Per una ricostruzione dell’evoluzione giurisprudenziale sul tema in esame si veda inoltre F. BATTAGLIA, I differenti orientamenti giurisprudenziali in materia di accesso al pubblico impiego fra atteggiamenti di chiusura e approcci più attenti al diritto dell’Unione Europea, in Federalismi.it, 11 ottobre 2017.

[2] Si rinvia a CGUE C- 405/01 del 30 settembre 2003, Colegio de Oficiales de la Marina Mercante Española nonché alla più recente CGUE C-270/13, 10 settembre 2014, Haralambidis. In tema di pubblico impiego e esercizio di pubblici poteri si vedano CGUE C-149/79 Commissione c. Belgio, 17 dicembre 1980 CGUE C- 405/01 del 30 settembre 2003, Colegio de Oficiales de la Marina Mercante Española. Secondo la Corte, le deroghe al principio della libera circolazione attengono a posti che presuppongono “da parte dei loro titolari, l'esistenza di un rapporto particolare di solidarietà nei confronti dello Stato nonché la reciprocità di diritti e di doveri che costituiscono il fondamento del vincolo di cittadinanza”.

[3] Originariamente, il Testi Unico del Pubblico Impiego riconosceva la possibilità di accedere al pubblico impiego in Italia solamente ai cittadini dell'Unione Europea. Successivamente all’avvio di una procedura di infrazione nei confronti del nostro paese, per la non conformità della formulazione del Testo Unico con le direttive europee che equiparano ai cittadini europei quelli in possesso di determinate tipologie di permesso di soggiorno, si è imposta la necessità di aggiornare le disposizioni normative in materia di accesso al pubblico impiego. Attualmente, possono accedere a posti di lavoro presso la pubblica amministrazione, i quali non implichino esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri anche i cittadini di Paesi terzi che siano titolari del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo o che siano titolari dello status di rifugiato ovvero dello status di protezione sussidiaria.

[4] Si tratta del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 174 del 7 febbraio 1994, recante le norme sull'accesso dei cittadini degli Stati membri dell'Unione europea ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche.

[5] Tribunale di Firenze, sez. Lavoro, ordinanza del 27 maggio 2017 RG n. 1090/2017.

[6] Il riferimento ai “pubblici poteri” come espressione di una competenza riservata agli Stati membri.

[7] Tale impostazione ha trovato conferma nell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 9 del 2018, con cui, facendo piena applicazione della giurisprudenza della Corte di giustizia, si è disposto che non è possibile riconoscere in modo indistinto l’esercizio dell’autorità pubblica e la responsabilità di salvaguardare gli interessi generali dello Stato a fronte di qualunque posto di livello dirigenziale dello Stato. Secondo il Consiglio di Stato, l’esame delle attribuzioni dei direttori dei musei evidenzia come le attività svolte prevalentemente consistono in compiti attinenti a profili organizzativi, gestionali e di valorizzazione delle risorse, per i quali “non è legittimamente apponibile la riserva di nazionalità”. La sentenza dispone la disapplicazione, perché contrastanti con il diritto comunitario, dell’art. 1, comma 1, D.P.C.M. n. 174 del 1994 e dell’art. 2, comma 1, D.P.R. n. 487 del 1994, nella parte in cui impediscono a cittadini stranieri di assumere i posti dei livelli dirigenziali delle amministrazioni dello Stato e laddove non consentono una verifica in concreto circa la sussistenza o meno del prevalente esercizio di funzioni autoritative in relazione alla singola posizione dirigenziale. Per un commento alla sentenza in esame, si veda B. GAGLIARDI, La libertà di circolazione dei dirigenti pubblici europei in Diritto Amministrativo, 2020, 163 e ss. Si rinvia, inoltre, a Consiglio di Stato, 10 marzo 2015, n. 1210. La sentenza analizza il caso della nomina di un cittadino greco a Presidente dell’Autorità aeroportuale di Brindisi. Il TAR Puglia, in primo grado, disponendo che l’Autorità portuale avesse carattere di ente pubblico non economico e richiedesse l’esercizio al suo presidente di poteri pubblici, dispone, a norma dell’art. 51 Cost., che la cittadinanza italiana costituisce un requisito indispensabile per l’accesso alla carica. In secondo grado, il Consiglio di Stato, dopo aver sottoposto la questione alla Corte di Giustizia, tramite rinvio pregiudiziale, dispone che, ai sensi dell’art. 11 Cost., le disposizioni di cui all’art. 45 TFUE sono recepite nel nostro ordinamento. Il Consiglio di Stato, rilevando che il Presidente dell’Autorità portuale esercita poteri d’imperio a carattere meramente occasionale o addirittura eccezionale, conclude riconoscendo anche a cittadini non italiani la possibilità di divenire Presidenti dell’Autorità portuale.

[8] Tribunale di Milano n. 15719 dell’11 giugno 2018.

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