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Era una strada poco trafficata, costeggiata dalla linea blu del parcheggio. Qualche lampione qua e là provava a illuminare la scena con un timido fascio di luce a led, ma i tratti al buio sembravano prevalere sugli altri; era mezzanotte inoltrata. In sottofondo si sentiva il rumore di un tram lontano, forse l’ultimo della giornata. Francesco vide il ragazzo a qualche metro da lui. Camminava lentamente, con il cappuccio della felpa calato sulla testa e gli occhi sul marciapiede. A un certo punto si fermò davanti a un’auto rossa parcheggiata lì vicino e le diede un calcio sulle ruote.
Non suonò nessun allarme, ma non ce n’era bisogno. La polizia era già lì. Francesco e Giuseppe erano arrivati nel quartiere dopo che alcuni residenti avevano segnalato dei rumori sospetti. Sembrava che qualcuno si stesse divertendo a disturbare la quiete pubblica, battendo sui cofani o tirando con insistenza le maniglie delle portiere. Poteva trattarsi di uno scassinatore maldestro?
A vedere quella figura incappucciata, i due poliziotti esclusero subito questa opzione. -Ma è un ragazzino -, commentò Giuseppe, il collega più anziano. Parcheggiò l’auto di servizio in doppia fila e scosse la testa. - Gioventù bruciata -.
Francesco accennò un sorriso ironico. Ormai sentiva di non appartenere più a nessuna gioventù, anche se i suoi venticinque anni appena compiuti avrebbero potuto smentirlo. Nell’arco di cinque o sei mesi aveva vissuto grandi stravolgimenti, che lo avevano portato dalla sua Bari a quella fredda città piemontese: era entrato nelle forze dell’ordine e aveva ricominciato una nuova vita altrove. Sentiva di essere cresciuto.
Aveva sempre ammirato la professione del poliziotto, ma non aveva mai pensato di diventare lui stesso uno di loro, almeno non fino a qualche tempo prima. “Perché no?”, si era detto. Complice fu anche il disorientamento che aveva provato per mesi, quella sensazione di perdersi nell’attesa di un futuro non ben definito. Così, eccolo in quella strada, nella sua nuova uniforme che aveva riempito d’orgoglio i genitori. Raggiunsero il ragazzo che “giocava” con le auto. - Che cosa stai combinando? Ma hai visto che ora è? –, gli chiese il collega, in un tono amichevole. Giuseppe era quello dalla risata facile.
Il giovane, vedendoli arrivare, sobbalzò, ma non disse nulla. Si fermò sul posto con le mani in tasca e un’espressione indecifrabile sul volto. Avrà avuto circa quattordici anni, non di più. Gli occhi marroni seguirono con attenzione i movimenti dei due poliziotti. - Non puoi andare in giro a dare botte alle auto. Come ti chiami? –.
Tutto ciò che ottennero fu un silenzio ancora più ostinato. I due uomini si scambiarono un’occhiata. Francesco osservò il giovane per qualche istante, cercando di indovinarne la nazionalità: dalla fisionomia e dalla pelle olivastra aveva intuito che potesse avere origini sudamericane. -Parli italiano? –, tentò allora, in spagnolo. Un ricordo dalla scuola superiore. Quello continuò a guardarlo senza dire nulla, le labbra cucite. Lui cominciò a innervosirsi. -Hai un documento? Il permesso di soggiorno? –, gli chiese, alzando un poco la voce. Passò qualche altro secondo di silenzio, prima di sentirsi rispondere: -Guardi che sono italiano! Anche se i miei sono peruviani, io sono nato e cresciuto qui –. Quella affermazione prese i due alla sprovvista, ma ancor di più il tono accusatorio implicito, come a sottolineare quanto fosse ovvia la verità e quanto fossero stati incapaci loro a non riconoscerla subito. O, almeno, questo è ciò che percepì Francesco. Non riusciva proprio a capire perché il ragazzo non avesse detto nulla prima, facendogli perdere tutto quel tempo. -Allora sai parlare! –, commentò Giuseppe, stizzito quanto lui. -Fai che mostrarci anche un documento, già che ci sei –. Lui scrollò le spalle. -Non li ho con me –, rispose. La voce gli tremò sul finale. -Vivi qui vicino? –.
Un cenno di assenso. -Chiama qualcuno che te li porti –. I tre aspettarono almeno un quarto d’ora prima che si presentasse la zia, una certa Flor. Quando li vide fermi sul marciapiede, la donna accelerò il passo e si frappose tra i poliziotti e il nipote, che chiamò Juan. Gli circondò le spalle con un braccio e mormorò qualche parola in spagnolo: il ragazzino, che era rimasto così rigido fino a quel momento, sembrò finalmente rilassarsi. Francesco colse anche un riferimento all’essere “razzisti dei poliziotti”, ma fece finta di non capire e si allontanò di qualche passo. Stava vivendo quel momento con un misto di incredulità e fastidio. Mentre la donna mostrava i documenti al collega, lui riuscì solo a pensare a quanti chilometri aveva percorso per ritrovarsi in quella situazione. Scosse la testa e alzò lo sguardo verso il cielo. Non riusciva proprio a capire.
Online l'aggiornamento della Guida pratica "Vivere, Lavorare e Studiare in Italia" per operatori e operatrici e cittadini/e stranieri/e, realizzato da IRES, ASGI e A.M.M.I. nell’ambito del progetto Mediato.
La guida fornisce informazioni su: ingresso, soggiorno e permanenza in Italia, ricongiungimento e coesione familiare, cittadinanza, salute, lavoro, prestazioni sociali, studio, riconoscimento dei titoli conseguiti all’estero e delle competenze professionali, msna, tratta e protezione internazionale.
È strutturata in schede domande/risposte in un linguaggio semplice e diretto ed è disponibile in 6 lingue: italiano, arabo, cinese, inglese, francese e spagnolo.
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Pollo, limoni, aglio, cipolle, manioca, foglie di alloro.
Amadou continuava a ripetere tra sé e sé la lista della spesa che gli aveva consegnato Fatoumata quella mattina, sicuro di essersi dimenticato qualcosa. Aveva contato sette ingredienti prima di prendere il treno, ma aveva perso il bigliettino su cui la mano della moglie aveva sbrigativamente segnato le sue richieste.
– Già che passi a Torino, fai un salto anche a Porta Palazzo – gli aveva detto, accompagnandolo alla porta. Si era sistemata un lembo della fascia che le copriva le treccine e aveva sorriso con gli occhi. – Stasera preparo lo yassa poulet. –
Amadou le aveva dato un bacio: non vedeva l’ora.
Aveva lasciato casa con quel pensiero felice e, nonostante il ritardo iniziale, era riuscito ad arrivare in tempo a Torino, dove l’avevano chiamato per una mediazione wolof.
Ora, di ritorno a Porta Nuova dopo i vari impegni, tutto ciò a cui riusciva a pensare era l’ingrediente mancante. Sapeva che non era fondamentale per la ricetta, ma non era una cosa che avrebbe potuto dire a Fatoumata. Sorrise all’idea, mentre entrava in stazione. Alzò lo sguardo verso il tabellone delle partenze: il treno per Carmagnola delle 12:41 sarebbe partito a breve. Si affrettò verso il binario, intralciato dai vari sacchetti del mercato.
Fu in quel momento che li vide svoltare l’angolo.
Erano in due, un uomo e una donna in una divisa ben stirata, ancora giovani - trent’anni o poco più. I poliziotti si guardarono intorno con attenzione, scambiandosi un paio di battute che Amadou non riuscì a sentire. Ma vide i loro occhi superare la ragazza che si era fermata davanti alle vetrine di una libreria, la coppia di signori anziani che trascinava il suo bagaglio, il padre che passeggiava con i suoi bambini. Poi, come attratti da una calamita, si fermarono su di lui.
Il mediatore avrebbe voluto accelerare il passo per evitarli, far finta di niente, ma era ormai troppo tardi. Si stavano avvicinando.
– Buongiorno, documenti –, gli chiese il poliziotto più basso, senza una particolare intonazione. Lo guardò negli occhi e attese.
– Certo, subito –, rispose lui, cominciando tuttavia a sentire un leggero nervosismo duettare con i battiti del cuore. Era consapevole della normalità di quel controllo, per quanto avesse qualche dubbio sulla “casualità della scelta”, ma non poteva fare a meno di preoccuparsi ogni volta che succedeva. Per chi – immigrato come lui - aveva avuto una lunga serie di problemi con i documenti, restava in ogni caso il dubbio.
E se ci fosse stato un errore? E se all’anagrafe avessero sbagliato a scrivere il suo nome e lui non l’avesse notato per tempo?
Amadou non poteva fare a meno di provare un senso di smarrimento. Durava una frazione di secondo, giusto il tempo per sentire il cuore accelerare e il respiro farsi corto.
Aveva sentito troppe storie per non preoccuparsi.
Guardò ancora una volta i due poliziotti e fece un cenno di assenso con la testa. Posò a terra i sacchi della spesa e recuperò il suo portafoglio dalla tasca destra dei pantaloni. Eccola, la sua doppia salvezza: la carta di identità e il permesso di soggiorno.
Porse i documenti al poliziotto che glieli aveva chiesti. L’uomo li prese in mano, li girò più volte, li guardò a lungo come a voler essere certo di ogni dettaglio; gli capitava spesso di trovare delle ottime riproduzioni. Passò quindi a confrontare le fototessere, poi posò nuovamente lo sguardo su Amadou. Lui si sentiva in apnea.
Dopo dieci lunghi secondi, il poliziotto annuì. – La ringrazio, può andare –, disse infine. Gli rivolse un sorriso educato.
Amadou si lasciò sfuggire un sospiro sollevato. Recuperò i documenti e si avviò verso i binari, lasciandosi via via la tensione alle spalle. Si chiese se la polizia fosse in grado di vedere qualcos’altro oltre l’uomo nero alto un metro e novanta, o se non fosse stufa di ripetere sempre i soliti schemi. Li notavano?
Amadou augurò loro di avere più capacità critica, a sé stesso di non trattenere più il fiato.
Quando diede una nuova occhiata al tabellone delle partenze, vide che mancavano ancora tre minuti. Corse allora a validare il biglietto e salì sul treno in fretta e furia, portandosi dietro tutte le buste di Porta Palazzo. Gli cadde qualche foglia di alloro.
Una volta partito, man mano che si allontanava dalla stazione, Amadou si ritrovò, si sentì lucido, provò una rinnovata leggerezza. Fu in quel momento che gli tornarono in mente. Le olive.
Ecco cosa si era dimenticato.
Era una serenità che stava cercando da ormai tanto tempo.
Laura non avrebbe mai immaginato che alla fine l’avrebbe trovata nella sua casella di posta elettronica, in formato PDF. Dopo aver scaricato il suo contratto di lavoro a tempo indeterminato, aveva tirato un sospiro di sollievo.
Era il primo dopo una lunga serie di delusioni e fatiche, ma ora poteva finalmente riporre nel cassetto gli strumenti da equilibrista. Dopo più di vent’anni di attività occasionali e sottopagati, diventare impiegata alle poste le sembrava una buona base per cominciare a rimettere insieme i pezzi della sua vita.
Quel giorno aveva già effettuato il pagamento di cinque bollette, fatto due prelievi e consegnato una mensilità NASpI, quando al suo sportello comparve una nuova utente, il numero A19.
Era una donna nera, sui sessant’anni, con una lunga veste ocra e i capelli raccolti in un turbante dello stesso colore. A Laura ricordò subito alcune signore somale del suo condominio con cui aveva condiviso sì e no dieci parole in sei anni.
– Buongiorno, vorrei aprire un conto postale –, esordì la signora. Il suo italiano tradì una lieve inflessione straniera.
– Certo, mi servono un documento di identità e il codice fiscale –, le rispose Laura. Cominciò ad avviare la pratica sul suo computer, ripassando mentalmente i vari passaggi da fare. In quei primi mesi di lavoro non voleva fare alcun errore; viveva ancora con il timore che i responsabili potessero cambiare idea su di lei. Per questo guardò con esitazione i documenti che Sagal - come lesse sulla carta di identità - le aveva appena passato al di là dello sportello.
Risultava avere la cittadinanza italiana, ma Laura ebbe comunque dei dubbi.
Da qualche parte su Internet aveva letto che il mercato dei falsificatori di documenti stava diventando sempre più accurato e preciso, soprattutto nei paesi africani. Aveva addirittura sentito aneddoti preoccupanti di alcuni colleghi, che si erano ritrovati a dover chiamare la polizia dopo aver scoperto conti correnti sospetti e carte di identità false.
Lei non voleva finire in una situazione simile. Guardò Sagal in volto e cercò indizi che potessero svelare le sue intenzioni. – Le chiedo gentilmente anche il permesso di soggiorno –, aggiunse allora, come cautela in più. Pensava che quello sarebbe stato più difficile da replicare.
Sagal socchiuse un attimo gli occhi e la fissò interdetta. – Mi scusi, non capisco. Sono cittadina italiana –.
– È per una questione di sicurezza –.
– Sì, ma le sto dicendo che non ha senso –.
– È sempre stata cittadina italiana? –.
– No, ma lo sono diventata quattro anni fa. Cosa c’entra con un conto postale? –.
– Ci sono stati alcuni problemi in passato, vorremmo solo essere un po’ più cauti ora. Ha il
suo vecchio permesso di soggiorno con sé o la domanda di cittadinanza? –. Laura vide l’espressione di Sagal passare dall’incredulità all’indignazione: le sopracciglia si aggrottarono così tanto che gli occhi divennero fessure incandescenti.
– Sono cittadina italiana –, ripeté, scandendo bene le parole. Trasse un profondo respiro. – Non ho bisogno di nessun permesso per vivere qui, né per aprire un conto corrente alle poste –. Il tono di voce si stava facendo sempre più alto.
Laura cominciò ad agitarsi; tamburellò le dita sul tavolo in un tic nervoso, ma cercò di mostrarsi ferma nella sua posizione. Le era già capitato di discutere con alcuni clienti per questioni piccole come la precedenza nella fila, soprattutto quando c’erano prenotati via app, ma non era ancora arrivata a quei livelli.
Con la coda dell’occhio vide che le altre persone in coda le stavano guardando con un misto di curiosità e fastidio, una sensazione che caratterizzava quasi tutti gli uffici postali.
– Ci diamo una mossa? Se ci sono problemi con i documenti della signora, non ho problemi a chiamare io stesso la questura! – intervenne un uomo.
Fu la ciliegina sulla torta.
Sagal lo fulminò con lo sguardo, raccolse le sue carte e scosse la testa. Non poteva credere di doversi ancora confrontare con quella situazione e rivendicare un riconoscimento che le spettava di diritto, dopo tutti gli anni vissuti lì. Si rivolse a Laura a denti stretti: – Lei si dovrebbe solo vergognare –.
Quando uscì dall’ufficio a grandi falcate, scese un breve silenzio carico di tensione.
La sportellista si guardò intorno e incrociò lo sguardo interrogativo di una collega. Si era forse sbagliata? Non avrebbe dovuto insistere?
Le venne il dubbio di aver superato un limite, ma al contempo aveva l’impressione che fosse successo tutto troppo in fretta.
L’unica cosa di cui era certa era che quel lavoro le serviva.
Con uno strano peso al cuore, chiamò il numero successivo.
Era incredibile quanto potessero diventare creative le persone colte senza biglietto sui mezzi. Giovanni ne sapeva qualcosa. Nel corso della sua esperienza da controllore, aveva sentito storie su abbonamenti scomparsi nei meandri di un cassetto o documenti rubati, scambiati, mangiati dal cane. Ma c’era anche chi non diceva nulla: quelli che decidevano di salire sul tram e tentare la sorte, consapevoli del rischio. Spesso erano gli stessi che abbracciavano la filosofia del “meglio una multa ogni tanto, che pagare il biglietto tutte le volte”.
– In ogni buona famiglia che si rispetti ce n’è sempre uno –, aveva commentato un collega, una volta.
Giovanni aveva trascorso dieci anni della sua vita a fare quel lavoro: episodio dopo episodio, aveva imparato a riconoscere i passeggeri senza regolare titolo di viaggio da una semplice occhiata. Alcune volte li tradiva uno sguardo ansioso verso le uscite, altre un gesto nervoso della mano o un improvviso silenzio, laddove prima si erano sentite delle risate.
Non era una scienza sicura al cento per cento, ma il controllore aveva avuto tutto il tempo di studiare a fondo la sua città e i gruppi che vivevano nei diversi quartieri, individuando le ricorrenze e le abitudini. Vicino ai mercati come Porta Palazzo, per esempio, sapeva di dover fare particolare attenzione.
Quel giorno prestava servizio proprio lì in zona, insieme a due colleghi di vecchia data. Con uno di loro, Daniele, aveva addirittura rincorso alcuni ragazzi senza biglietto per un paio di isolati qualche anno prima, prima di arrendersi e “dargliela vinta”.
Quando raccontava di quei momenti, commentava ironicamente di quanta azione ci fosse anche nel suo lavoro.
I tre controllori salirono su un tram abbastanza affollato e si guardarono intorno per valutare la situazione. Con la coda dell’occhio, Giovanni vide alcune persone attivarsi, pronte a mostrare il biglietto, ma la sua attenzione fu catturata da altro.
Da lontano scorse una signora con il velo, forse di origine marocchina, che guardava le porte di uscita con una certa apprensione, come se avesse fretta di scendere.
– Vai tu in fondo? –, gli chiese allora Daniele, sistemandosi il gilet blu che indossava. Dovevano fare in fretta, se volevano essere sicuri di controllare tutti per tempo: era questione di una fermata, massimo due.
Giovanni annuì e si mosse nella direzione della donna. A una brusca fermata, dovette aggrapparsi a una maniglia del tram per non perdere l’equilibrio, ma continuò a tenerla d’occhio. Accanto a lei c’era un carrello della spesa e un bambino di circa quattro anni seduto a gambe incrociate sul sedile.
Il controllore conosceva bene quella situazione. Di persone come lei, infatti, ne aveva incontrate tante. Erano madri che viaggiavano senza biglietto con la scusa del figlio piccolo stanco di camminare. Madri dal Marocco o da altre parti del mondo, che gli chiedevano di chiudere un occhio, cercando di fare leva su quella carta emotiva.
Quando arrivò finalmente davanti a lei, ignorando un paio di altri passeggeri, Giovanni era certo di coglierla in fallo. Nell’arco di quei trenta secondi, la donna aveva lanciato altre occhiate ansiose alle uscite.
– Buongiorno, biglietto? –, esordì l’uomo.
– Certamente –, replicò lei, prima di rovistare nella borsa e tirare fuori il documento richiesto. – Mi scusi, per Porta Nuova manca ancora molto? –.
Giovanni rimase un attimo disorientato. Si ritrovò a guardarla con sorpresa, stupito anche del suo italiano. Si aspettava una pronuncia diversa.
Le prese allora il biglietto dalle mani e controllò più volte la data della convalida: aveva timbrato da circa venti minuti.
– Mio figlio è ancora piccolo, può viaggiare senza –, aggiunse la donna, indicando il bambino con i capelli ricci accanto a lei.
L’uomo annuì; dopo un breve momento di esitazione, le restituì anche il documento. –
Mancano ancora cinque o sei fermate –, le rispose.
La signora lo ringraziò gentilmente, mentre lui capì di aver fatto un errore di valutazione. Mascherò il suo smarrimento con un’espressione indecifrabile e si allontanò a grandi passi. Al suo passaggio, sentì qualcuno commentare la scena sottovoce, accusandolo di discriminazione perché aveva controllato solo lei che era straniera.
– Qui in Italia si applicano sempre doppi standard, eh? –.
Lui preferì non dire nulla. Non era stato solo quello, ma forse anche quello. Scese alla fermata successiva con i colleghi.
In ogni caso, aveva solo fatto il suo lavoro.
Passaporto, carta d’identità, permesso di soggiorno.
Maria aveva da poco compiuto sedici anni, ma aveva già ricevuto parte della sua eredità: la paura di perdere i documenti.
Dopo aver lasciato la Cina ed essere arrivati in Italia, i genitori l’avevano cresciuta con un particolare senso di responsabilità nei confronti di quei fogli. Per le famiglie immigrate come la loro, infatti, non erano solo un attestato di identità, ma certificavano il loro diritto di restare, lavorare, vivere lì. Di appartenere a quel Paese.
Per questo, ogni volta che Maria doveva andare da qualche parte in treno o in aereo, controllava la sua borsa più e più volte.
Ma a renderla vigile non era solo la paura di perdere i documenti. C’era anche il timore, non ben definito, che qualcosa potesse andare storto, che durante un controllo emergessero delle irregolarità. Era una sensazione che le era stata trasmessa negli anni, ma ebbe modo di sperimentarla sulla propria pelle solo quel mercoledì mattina.
Si trovava in aeroporto con i suoi compagni di classe, circondati da zaini e trolley. Era la prima gita che facevano all’estero: presto sarebbero partiti per Londra e avrebbero vissuto con alcune famiglie inglesi per una settimana.
Maria aspettava quel giorno da mesi. Assaporava il momento in cui sarebbe salita sul London Eye per ammirare la città dall’alto, o quello in cui avrebbe finalmente visto il Big Ben dal vivo. Quando aveva scoperto la destinazione di quell’anno, avrebbe voluto alzarsi dal banco e abbracciare le insegnanti. Aveva guardato così tante serie televisive ambientate in quella città che non le sembrava vero poter finalmente andarci.
Tuttavia, i preparativi per la partenza non erano stati semplici: dal momento che aveva ancora la cittadinanza cinese, aveva dovuto affrontare varie peripezie per ottenere il visto. Alla fine, però, era riuscita a riemergere dalla macchina burocratica in cui si stava perdendo grazie all’intervento della scuola.
Era certa di avere tutto quello che serviva: ciò che la separava dal suo sogno era solo quell’aereo. Così, quando venne fermata al gate d’imbarco, rimase senza parole.
– Aspetti un attimo –, le disse l’agente di volo. Sulla targa dell’uniforme si poteva leggere il nome di Simone.
Maria gli rispose con un’occhiata interrogativa. I suoi compagni avevano superato il controllo senza problemi e si erano già diretti alla navetta. Lei era l’ultima a dover passare. Alle sue spalle era rimasta solo la Romano, la docente di matematica.
Simone scrutò dubbioso i documenti che aveva ricevuto e si soffermò sul permesso di soggiorno, guardando con attenzione la foto e il nome. Poi sollevò gli occhi sul suo volto, rilesse il foglio del visto e sembrò esitare.
Nell’ultimo periodo c’erano stati alcuni casi di falso documentale che coinvolgevano voli diretti in Gran Bretagna, per cui pensò che la cautela non fosse mai troppa. Con un cenno del capo chiamò allora l’attenzione di una collega; aveva bisogno di un confronto. – Dobbiamo verificare alcuni dati –, disse solo a Maria, come se quella spiegazione potesse in qualche modo bastare.
Lei lo guardò senza capire. Sentì solo il battito del cuore accelerare e i pensieri aggrovigliarsi tra loro. Quali dati dovevano controllare? Aveva forse dimenticato qualcosa? Eppure aveva riguardato i documenti svariate volte. Ma se poi aveva superato il check-in in tutta tranquillità, perché dovevano saltare fuori problemi all’ultimo?
Cercò di dire qualcosa, ma le uscì un verso confuso.
– Mi scusi, cosa sta succedendo? –.
Sentì la voce della Romano intervenire al suo posto. La donna si stava rivolgendo a Simone con le mani sui fianchi e la fronte corrucciata, con quella tipica espressione che rivolgeva agli interrogati. – È una gita scolastica. Perché ha fermato la mia studentessa? Il suo visto è più che valido, garantisce la scuola –.
Maria vide l’uomo rispondere, ma non riuscì a coglierne le parole.
Si sentiva come sospesa in una bolla. A parte il suo respiro, tutto il resto sembrava ovattato.
La professoressa aggiunse ancora qualcosa, indicando un dettaglio sui documenti che aveva fornito. Simone e la collega che intanto li aveva raggiunti diedero un’altra occhiata e annuirono. – Va bene, può andare –. Questa volta Maria sentì forte e chiaro.
La Romano si voltò verso di lei con un sorriso e le fece cenno di sbrigarsi. Mancavano venti minuti alla partenza. – Visto? Tutto risolto. Ora andiamo, che ci aspettano –.
Mentre percorreva il corridoio che l’avrebbe portata alla navetta, Maria trattenne il fiato. Per cinque lunghissimi minuti aveva creduto di restare a terra; non era certa di potersi ancora rilassare. Capì che la situazione si era risolta solo quando vide da lontano il resto della sua classe che la stava aspettando.
Strinse al petto i suoi documenti - passaporto, carta d’identità, permesso di soggiorno e visto per la Gran Bretagna - e sorrise.
Si permise finalmente di respirare.